Mostra del Cinema di Venezia
intervista
Sofia è un addensato graziosamente femminile e delicato di intraprendenza, rivelatrice di subconsci dolorosi, adolescenze inquiete, silenzi rivelatori e musica.
Lo aveva dimostrato nel 1999 con quella perla di crudeltà giovanile che le sue vergini suicide avevano regalato nel loro giardino di illusioni infrante ed oppressioni da parte del borghese puritanesimo statunitense. Lo aveva consolidato con il premio Oscar alla sceneggiatura di quel capolavoro di rarefazione giapponese che “Lost In Translation”, tra sguardi e ispirazioni vagabonde di stranieri che ritrovano sé stessi con altri sconosciuti, aveva creato spiazzando ogni scettico ed incantando romanticamente e dolorosamente.
Poi venne il concentrato di colori sbarazzini della sua “Marie Antoniette” (2006), colonna sonora esaltante inclusa, coraggioso ed audace.
Oggi con “Somewhere”, Sofia Coppola rivela una più che mai certosina abilità nell’inquadrare la dannazione più che mai reale e concreta che il suo protagonista (finalmente un ruolo di prima scena per Stephen Dorff), bello e maledetto nella condizione di neo-star hollywoodiana inconsapevole della propria profondità ma inquadrato (volente o nolente? – ndr), in un percorso subdolo di perdizione tra alcolici, sigarette interminabili e donne usa-e-getta, vede abbattuto con l’arrivo, o meglio, l’effettiva conoscenza, della sua undicenne figlia, spensierata apparentemente e combattuta intimamente nella propria condizione di pacco-postale tra genitori/star divorziati.
Lei (Elle Fanning), decisiva e puntuale, penetrante nella sensibilità ritrovata del giovane padre immaturo (ma non fatevi ingannare, la storia non segue il classico cliché!- ndr), sarà capace di redimerlo dalla condizione di star inetta n uno show business luccicante e falso?
Ed è proprio con questa domanda che persino il finale lascia in bilico lo spettatore, ammaliato per tutto il film dai pochi dialoghi e dai silenzi a metafora stessa della solitudine interiore del protagonista Johnny Marco, mitigati solo, e divinamente, dall’altro marchio di fabbrica di Sofia: una colonna sonora ricercata e strepitosa.
Ma chi è Johnny Marco, dunque, Sofia? (citando una frase topica del film, appunto)
SC: Johnny è un uomo inattivo, incapace di veri sentimenti, o meglio che crede di esserlo, quasi accecato dalle luci di un successo, forse, raggiunto senza merito e studio, in fretta e capace di spegnere il fuoco della sua stella in breve tempo. Insegue falsi miti senza accorgersene, solo e solitario, non parla con nessuno e non è di compagnia, vive la propria transizione da giovane a uomo maturo in maniera inconsapevole. E qui entra in gioco la dolcezza di Cloe.
Tutta la pellicola riflette, inoltre sul tema dello show-biz, italiano, in primis, a specchio di quello mondiale, a bilanciare l’innata umanità di Cloe…
SC: E’ un mondo in cui è facile perdersi, in Italia e in America come altrove. Nel mio film gli stereotipi sono resi all’eccesso, in alcuni punti, ma senza mai troppo discostarsi dalla triste realtà. Il contrasto sta proprio tra questo mondo fatuo e superficiale e la figlia del protagonista, tra apparenza e realtà…
L’isolamento del personaggio di Dorff, risulta terapeutico e dannoso al contempo, a seconda dei momenti. Non c’è una risposta effettiva, ma solo la perfetta cornice ai dubbi dell’uomo…
SC: L’isolamento è il momento tipico di una qualsiasi transizione che ogni uomo vive. Ho cercato di delinearne il contenuto senza l’uso morboso dei dialoghi (che sono pochissimi in tutto il film – ndr), tra silenzi e innumerevoli sigarette, e soprattutto attraverso la musica a fare da sottofondo ai pensieri di Johnny e di Cloe, da soli e insieme.
La musica, appunto: un elemento chiave da sempre delle tue opere…
SF: Vivo ascoltando musica, dirigo e scrivo ascoltando musica. Adoro pensare che sia anche la musica, oltre alla realtà e alla fantasia, a farmi da guida nel momento creativo, e voglio sempre che sia così anche per i miei personaggi, in modo che lo spettatore, grazie ad una particolare canzone, riesca ad entrare nella poetica di una scena o nell’animo di un personaggio. In “Somewhere” c’è di tutto, dagli Strokes ai Foo Fighters, passando per i T-Rex. Epoche diverse, generi diversi, voci diverse, tutte facenti parte di uno stesso personaggio che evolve e vive in solitudine, perché sono sempre molte le facce di una persona!
Questo tuo ultimo film vede, contrariamente ai precedenti, un protagonista maschile. E, tra l’altro, durante la post produzione eri incinta…
SC: Ho provato ad immedesimarmi nel pensiero di un uomo. Un uomo che si sveglia dopo una sbronza colossale, un uomo che guarda due ballerine di lap-dance, un uomo che si addormenta prima di fare sesso. E soprattutto un uomo che scopre la vita attraverso sua figlia. In questo, la mia gravidanza certamente mi ha donato quel pizzico di sensibilità in più necessario a delineare e in primis capire io stessa il mio Johnny.
Poi c’è Los Angeles: un ritorno alla tua America…
SC: Da tempo volevo girare un film in California. Ne ho visti talmente tanti con mio padre da piccola che dopo tanto tempo mi sembrava il minimo cimentarmi in qualcosa vicino a me nei luoghi!
E ci sono i non-luoghi che già con “Lost In Translation” avevano fatto da perfetti scenari all’incomunicabilità, alla solitudine e alla scoperta. Non luoghi così tipici del nostro quotidiano…
SC: Si, gli hotel, soprattutto. Questo perché credo che siano perfetti a delineare anche visivamente, tutti in ordine e belli come sono, l’ordine prestabilito che cela il disordine di vita e psicologico dei miei protagonisti, la solitudine perché non appartengono a nessuno. E poi io ho girato, da piccola, al seguito di mio padre, talmente tanti hotel, che sono paradossalmente a mio agio in questi ambienti!!!
E l’indefinita essenza delle magistrali opere della Coppola colpisce ancora, lasciando senza fiato!
di Ilaria Rebecchi