Benedizione, dannazione, elevazione: c’è qualcosa di sacro in questa maledetta sacerdotessa della poesia cantata.
Qualcosa che abbatte le barriere della grezza umanità per trasportare senza via di fuga nella dimensione ultraterrena, fatta di versi recitati e consumati da parole intrise di onirica sostanza che ha radici nel più profondo fulcro di una resistenza sociale e culturale che la pone al centro di lotte e rivoluzioni di pensiero da decenni.
Lei è istrionica presenza tanto semplice ed impalpabile nell’aspetto quanto nel profondo deliziosamente sacrale ed avvolta da un pulviscolo ipnotizzante che affonda gli artigli nell’ascoltatore, appoggiato sofficemente in quel lirismo dall’aspetto tanto facile e musicale quanto capace, una volta spogliato, di espiantare il peggio per dare luce alla soffocata oscurità insita negli angoli più nascosti e sperduti dell’anima, che difficilmente trova spazio nel quotidiano e che attraverso la sua sempre perfetta, femminile e magnetica voce, riesce ad ambire all’eterno.
Lei, vagabonda ultima eroina che predisse ed aprì le porte al punk, si manifesta in quei versi, nell’assomigliare ad una figura di Modigliani o Schiele, nell’erotismo morboso che la sua femminilità, travestita da svogliatezza al gusto, palesa nell’ondeggiare quelle mani peccaminose e fiere, (“desire is hunger, is the fire I breath – love is a banquet on wich we feed”), nella dolcezza di potersi permettere di dimenticare una strofa proprio della canzone dedicata al grande amore della sua vita, “Frederick”, timidamente scusandosi, nella potenza dell’improvvisazione non troppo acustica (come invece il concerto intero sarà) del finale tirato e violentato nelle chitarre di “Beneath The Southern Cross”, nel dinamismo passionale di capisaldi della musica quali “People Have The Power” e “Dancing Barefoot” (e She is benediction, senza ombra di dubbio), nel ricordo devoto, sofferto e recitato come la più innocente delle bambine, di Papa Luciani, nel tripudio scuoti-membra (persino le più assenti) del capolavoro firmato in coppia con Bruce Springsteen, “Because The Night” e nella rinomata cover di Van Morrison, “Gloria”.
Riesce a far dimenticare l’orribile forma di un mondo che ruota attorno a sé stesso, per poco più di un’ora di travolgente trasporto emozionale, con la voce, i saluti, le parole e gli appelli (“all of you are volunteers, tonight”, per Emergency – prima di lei, sul palco, i tre volontari italiani rapiti e fortunatamente liberati in Afghanistan lo scorso Aprile – ndr), infarcendo il manto oscuro di una notte qualsiasi in una piazza non qualsiasi, della sua sola stella, la più luminosa ed unica.
Sognante e disillusa, amichevole e sprezzante, ribelle e nemica del potere, erotica ed oscena, esempio di vivacità intellettuale e pietas, Patti Smith avvicina ad un dio superiore, che non ha nome né forma, forse, ma che in tutto questo trova ragion d’essere e giustificazione persino per la razionalità del più scettico.
E tu, semplice essere umano, non puoi che convenire con lei: “Oh God I fell for you”.
Divina.
Patti Smith / We Shall Live Again tour
Piazza San Marco, Venezia – 1.08.2010
di Ilaria Rebecchi
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